Caro diario,
non so come si scriva un diario. Tanto meno un diario di viaggio.
Non so nemmeno se si scriva “Caro diario”, sinceramente.

Ad ogni modo ho bisogno di buttare giù un po’ di pensieri per non correre il rischio di dimenticarmi, un giorno, di questi giorni.
Scrivo lontano esattamente a 8778 km da casa mia, da quello sperduto paesino che è Favria. Ma potrei anche dire che sto scrivendo dalla mia nuova casa, o almeno in quella che lo sarà per i prossimi 10 mesi (o poco meno, oramai).

Sono partito già quasi un mese fa (mamma come vola il tempo!). Il 7 agosto ho lasciato il Canavese, dopo uno dei momenti più duri dei miei 17 o poco più anni di vita, ovvero dopo aver salutato per così tanto tempo tutte le persone che hanno reso importanti i miei 17 o poco più anni di vita.

Sinceramente non credevo di starci così male, né che loro ci stessero, ma è anche stata una dimostrazione di affetto che mi servirà per stare sicuro, durante la mia permanenza qui, che dall’altra parte del mondo ci sono un gruppo di amici e una famiglia che mi aspettano.

E così, dopo una notte passata a Roma, con tanta ansia e tante aspettative, sono partito insieme ad altri 52 ragazzi da tutta Italia, per questo viaggio così assurdo!
Sao Paulo do Brasil!!
Che città ragazzi, immensa, che da sola raccoglie un terzo della popolazione dell’Italia, piena di grattacieli e cose…enormi!

Purtroppo la permanenza in questa metropoli è durata soltanto una notte, e il 9 io con altri ragazzi da Belgio, Germania, Islanda e Thailandia siamo volati alla volta di Goiania, la capitale dello stato del Goias, esattamente nel centro del Brasile e non molto lontano da Brasilia. Arrivati, siamo stati accolti dai volontari dei vari centri locali. Io, personalmente, da Danilo, il mio tutor, e da Yuichi, un altro studente intercambista giapponese che vive qui già da 6 mesi. Ho rimpianto di non aver studiato neanche un po’ di portoghese, non capivo assolutamente niente, ma mi ha fatto ridere un sacco! Non del tipo “una volta ho detto ciao cavallo invece che ciao mamma ahahah” come dice
nella pubblicità, almeno ho avuto la decenza di starmene zitto se non sapevo cosa dire, o anche meglio lo dicevo in inglese.

Comunque, dopo il primo pranzo brasiliano, che come esattamente tutti gli altri pasti qui è composto da riso fagioli e carne, abbiamo preso un pullman e, dopo l’ennesimo viaggio eterno (5 ore, come se da casa andassi a Roma) sono arrivato a Uruaçu, casa!! Anzi no, perché non è la stessa da cui sto scrivendo. Infatti ho già cambiato casa, cambiato famiglia. E vorrei vedere! ero finito in una cosa molto simile a una favela. Niente carta igienica, un gabinetto che non si trova nemmeno nei bagni pubblici, un tappeto di formiche e ragni che giravano per casa. Sinceramente non so
nemmeno come abbia fatto a resistere una settimana. Eppure quella settimana mi ha insegnato molto sul vivere in povertà, perché pur non avendo nulla se non un tetto sotto cui vivere, la mia ex famiglia rideva sempre! E qui sono tutti così! Sinceramente, in un mese che sono qua, non ho mai sentito nessuno lamentarsi di non avere qualcosa. E la mia famiglia non ha molto di più (se non un bagno e un pavimento pulito). Se passeggi per le vie di Uruaçu, senz’altro vedrai molte più Fiat Uno degli anni ’90 che Panda nuove (macchina più bella che abbia visto in tutto questo tempo), e senz’altro vedrai qualche persona scherzare con qualche amico fuori dalla sua casa ancora in costruzione, che però non verrà mai finita. E “in costruzione” significa senza finestre, tanto per far capire.

Credo che la prima cosa che mi abbia colpito di qui sia stata la terra, che è rossa e non marrone (ma d’altra parte non piove da gennaio).
La seconda è stata il caldo, 40°C tutti i giorni da mezzogiorno alle 2 almeno. Poi senza dubbio l’urbanizzazione. Se per me a Favria per andare in un altro paese bastano una bici e 5 minuti, qui servono una macchina e almeno mezz’ora. In mezzo solo fazendas. Ecco come vivono, di fazendas. Quasi tutte le famiglie ne hanno una. È come una fattoria:
agricoltura e allevamento. Un luogo che trasmette una pace infinita, dove non c’è whatsapp, facebook o instagram. Ci sei solo tu con la tua famiglia, in mezzo a una “natureza” per me incomprensibile e inapprezzabile fino a poco tempo fa.

L’aspetto più negativo di questo paese, senz’altro, è la diffusa ignoranza. La maggioranza sa solo di bestiame e di raccolti. Non si occupano di altro. Anche tra i giovani, nessuno sa chi sia Hitler, o quando sia avventa la rivoluzione brasiliana. A volte mi guardano come un extraterrestre, i professori mi prendono come esempio per gli altri, e di certo questo non mi piace. Quando passo per strada non sono Gigi o Luigi, sono l’italiano, almeno per quelle persone che non conosco.

Ancora non mi è venuta grande nostalgia di casa, perché ho trovato una famiglia che mi fa sentire come a casa. Mamma Lucia e le sorelle Juliana e Jessica. Lavorano 12 ore al giorno, arrivano a casa e non facciamo altro che parlare e ridere. Sarò ripetitivo ma qua ridono davvero sempre!

La chiusura culturale è un’altra cosa ben visibile. Eppure sembra così assurdo, dato che questa popolazione è una mistura di culture molto differenti. L’altro giorno, a scuola, si parlava di aborto, e quando il professore ha chiesto chi fosse a favore, su una classe di 30 persone io sono stato l’unico ad alzare il mio braccio di italiano. E non ascoltano altre opinioni! La verità è che stanno bene come stanno, con le regole che hanno, e non si lamentano. Li invidio. A volte mi viene in mente Dante (in verità non mi sono mai sentito così legato alla mia cultura e alla mia nazione come adesso) e dire: “Fatti non foste per viver come bruti!” ma in realtà loro sono fatti proprio per questo. Per picchiarsi in strada, per giocare a calcio in strada con una palla fatta di fogli di giornale, per fare figli a 12 anni (ce ne sono 2 nella mia classe che già sono mamme da 3 anni, e di anni ne hanno 17). La verità è che in questa “brutalità” si vive benissimo. Non sanno chi è Hitler, e allora? Due calci al pallone li renderanno senza dubbio più felici che studiare la II guerra mondiale!

Mi rendo conto che sia un racconto molto confusionario (sono stato contagiato), ma credo che ben renda l’idea della contraddittorietà di questo mondo, in cui tutto sembra fuori posto, eppure è esattamente dove dovrebbe! Qui il motto nazionale è “Ordem e progresso”. Beh se parli con qualsiasi persona, questa ti dirà “Aqui nao tem ordem e nem tem progresso. Aqui estamos no Brasil!” e cioè “Qui non c’è ordine e nemmeno progresso, qui siamo in Brasile”, ma te lo dirà con un sorriso che non potrà fare altro che conquistarti!

Qua concludo il mio primo episodio del diario di viaggio, o qualunque cosa essa sia! Caro diario,
Atè mais!!
Luigi Azzolini, 4B


0 commenti

Lascia un commento

Segnaposto per l'avatar

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *